Il sintomo psicosomatico: considerazioni sul linguaggio del corpo

A partire dagli anni ’60 si manifesta un disagio diffuso nei confronti della medicina e della sua effettiva capacità di cogliere la reale domanda espressa dal paziente nel suo rapporto col medico. Le cause di questo disagio possono essere rintracciate nella prevalenza della patologia cronico-degenerativa su quella acuto-infettiva e nella progressiva importanza assunta dalla patologia psicosomatica e funzionale, sia nella medicina di base, sia ospedaliera. 

Tale mutamento nella patologia prevalente opera in due direzioni: da un lato mostra l’insufficienza della nosografia medica che si rivela essere uno strumento inadatto a comprendere questi eventi patologici, innesca un vasto movimento di pensiero circa il ruolo patogeno delle normali condizioni di vita ed inaugura una riflessione critica che ipotizza la medicina stessa essere una possibile causa di malattia. 

Dall’altro favorisce il riavvicinamento alla medicina delle discipline psicologiche e psichiatriche che vengono interpellate per le nuove esigenze terapeutiche a cui la medicina internistica non sa fare fronte. 

Lo scacco operato dalla diffusione della patologia funzionale e psicosomatica nei confronti degli abituali procedimenti medici, sommato all’influsso derivante alla medicina dall’apporto di psicologia e psichiatria, tradizionalmente aperte alle problematiche suggerite dalle scienze umane, induce gli operatori sempre più alla consapevolezza di dover superare ciò che si offre allo sguardo nell’immediata apparenza del corpo, al fine di giungere ad una comprensione più vera del bisogno di cui è portatore l’uomo che si rivolge al medico. 

Tentiamo perciò in questo lavoro un affondo che mostri ciò che si cela al di sotto del sintomo ed il meccanismo secondo cui esso si struttura fino a rendere obiettivabile ciò che inizialmente si manifestava come disagio. 

L’equilibrio dell’organismo non può essere considerato staticamente, quasi che la sua omeostasi possa essere mantenuta soltanto evitando accuratamente ogni stress. Esso è invece frutto di una relazione dinamica continua tra individuo (inteso come unità di processi sia organici che psichici) ed ambiente. Qualora gli stimoli di impatto raggiungano un’intensità tale da compromettere l’equilibrio totale personologico, la nuova situazione individuale si esprimerà attraverso la comparsa, in un tempo precoce, di segni e sintomi, o più tardivamente di uno stato vero e proprio di malattia il cui significato, nel caso della malattia psicosomatica, è quello di una “difesa a livello fisico come misura di emergenza per impedire che il soggetto venga sommerso dall’ansia”.[1] 

Evoluzione storica dei concetti di segno e sintomo: la lettura che ne fa il procedimento clinico 

La medicina clinica ha sempre indirizzato le sue forze al fine di rispondere con sollecitudine al problema principale e più urgente posto apparentemente dal malato: “la richiesta del nome della malattia, della diagnosi”.[2] 

Ciò si ottiene percorrendo alcune tappe obbligate costituenti nell’insieme il procedimento diagnostico. La prima di queste tappe è l’osservazione del malato: la semeiotica, in quanto “arte di rilevare i segni, i sintomi e tutti i dati riguardanti la malattia, collegandoli con le alterazioni tissutali, anatomiche e metaboliche che li determinano”.[3]

Il prezioso lavoro di Foucault sulla nascita della clinica dimostra che la lettura che convenzionalmente appartiene al metodo clinico moderno così l’abbiamo descritto e come ritroviamo in autorevoli Autori[4] ha le sue radici nella tradizione medica del XVIII secolo che si è fondata sull’osservazione sistematica di segni e sintomi e sul postulato “che ormai il significante (segno e sintomo) sarà interamente trasparente per il significato che appare, senza occultazioni né residuo, nella sua più mattutina realtà, e che l’essere del significato – il cuore della malattia – s’esaurirà interamente nella sintassi intellegibile del significante”.[5] 

Postulato un po’ presuntuoso in quanto presuppone che la totalità dell’essere (uomo in stato di malattia) si esaurisca in manifestazioni (segni e sintomi) che in modo trasparente, univoco e senza ostacoli si costituiscono come significanti rispetto al loro significato. Essi non sarebbero altro che “una verità tutta offerta allo sguardo”:[6] qualcosa nell’immediatezza del sintomo esprimerebbe la sostanza del patologico. 

In questa prospettiva non esiste più alcuna cesura tra la forma che assumono segni e sintomi e la realtà di cui sono i significanti: regole univoche e generali, cioè applicabili ad ogni uomo in qualsiasi situazione, legano gli uni all’altra. Queste leggi possono essere possedute da altri uomini in quanto l’essere della malattia si offre allo sguardo del ricercatore in una serie continua di alterazioni elementari che formano come gli anelli di una catena che lega gli effetti-significanti alla causa-significato. 

Lo scacco della medicina messo in luce anche dal disagio con cui i pazienti si rapportano all’atto medico che viene compiuto “sulla loro malattia” e quindi “su” di loro (non si dice forse: “sotto-porre un paziente ad un esame o ad una terapia?”), consiste nell’incapacità a comprendere la valenza globale del sintomo, il suo valore di domanda che non esprime solo ciò che ci si mostra risalendo la catena di alterazioni elementari, ma che rimanda ad altro. 

Maud Mannoni ci dà una suggestiva visione di questo “riandare ad altro”, compito di un approccio psicosomatico alla medicina: “È il tentativo di decifrare ciò che il malato vuol far capire con il suo sintomo. Si tratta di una parola che rimanda ad uno sguardo, a delle voci, ed è da questo corpo sofferente che il soggetto interroga il “sapere” medico ed esige la rivelazione di un male nascosto, mascherato. Esiste uno scarto difficilmente definibile tra il sapere oggettivato di un male oggettivabile, scientificamente individuabile, e ciò che questo corpo sofferente può fare intendere al medico e rivelare al soggetto come verità. La verità può rivelarsi in un luogo diverso da quello in cui la cerchiamo. Questa verità censurata per la coscienza sorge nel sintomo”.[7] 

Anche questa posizione riconosce, come quella tradizionale, che una verità si dà a vedere attraverso il sintomo, ma la posizione di osservazione è innegabilmente cambiata: non si esamina più per scoprire “da quale lesione derivi”, ma piuttosto per domandarsi con Groddeck “a che scopo accada”.[8] 

Questo “ritorno del corpo”,[9] che nella pratica medica assume il ruolo di protagonista nell’interpretare un diffuso disagio, ci fa pensare che per la medicina di oggi stia a significare il ritorno prepotente e vendicativo del rimosso, del corpo rimosso nella misura in cui la tradizione scientifica lo ha consacrato oggetto di osservazione della sua apparenza fisica. A ragione si può affermare dunque con Solignac che “il corpo non è che un pretesto, pagina bianca, supporto preliminare dove s’attualizza la storia del soggetto, e dove il sintomo appare come un agire, cioè la parola mancante. Il sintomo è il primo incontro che sottintende che la parola deve essere sempre trovata”.[10] 

Sintomo come linguaggio del corpo 

Nel suo Syntactic structures, Noam Chomsky cita la frase seguente: “Tutto ciò che serve a manifestare all’esterno la nostra interiorità ha il nome di linguaggio”.[11] Potremmo allora definire il sintomo come “linguaggio del corpo”, un “linguaggio d’azione”,[12] spesso apparentemente incomprensibile in quanto non regolato da quelle rigide convenzioni sociali che caratterizzano, all’interno delle facoltà del linguaggio, il campo della lingua, secondo la semantizzazione data da Ferdinand De Saussure nel suo Cours de linquistique générale.[13]  

L’affermazione della Mannoni che “l’uscita dalla malattia dipende dalla possibilità data o no al soggetto di tradurre in parole il suo malessere”[14] trova appoggio nella spiegazione della formazione del sintomo psicosomatico fornita da Cazzullo.[15] Egli dice che questi pazienti, trovandosi di fronte a un conflitto, rinunciano alla sua elaborazione psichica e alla sua comunicazione verbale, sostituendo questi processi con una sorta di “linguaggio d’organo” che consiste nel fissare gli elementi e i desideri connessi al conflitto stesso nella tensione del corpo. Avviene così, in modo più o meno compiuto, l’esclusione di tutto ciò che ha relazione col conflitto dai circuiti associativi, mnesici, logici, emotivi del pensiero e della parola. 

In virtù di questo meccanismo di fissazione del conflitto, il sintomo può essere considerato come barriera corporea, con la funzione di arrestare il pericolo al limite esterno di sé, in quanto innegabilmente anche un organo interno od un viscere rappresenta qualcosa di esterno rispetto al nucleo idetico ed affettivo della persona. Il costituirsi del sintomo svolge allora un ruolo di protezione, permettendo inoltre di trattare la malattia come un interlocutore esterno (“la mia gastrite”, ecc.) estraneo a me che parlo e perciò concesso al dominio del sapere medico. 

Ecco che la funzione di barriera si dimostra duplice: all’interno del malato, in modo da permettere il distacco da qualunque componente affettiva; quindi all’esterno, tra il paziente ed il medico che potrà spiegare il sintomo senza comprendere e nemmeno sfiorare l’intimità della persona. 

Ma in qualità di tessera di un linguaggio, il sintomo psicosomatico secondo molti Autori rappresenta non solo la funzione di barriera, ma anche un valore relazionale. 

Ad un primo livello ciò avviene impostando attraverso il sintomo corporeo i rapporti esterni. Si pensi ai lavori di Cazzullo, che hanno mostrato “la cute come corazza protettiva di fronte alle aggressioni esogene e nel contempo frontiera limite del corpo, sorgente di informazioni di fronte a stimoli gradevoli e nocicettivi, aperta al mondo nelle sue parti scoperte, sede delle modificazioni della vasomotilità indotte dalle emozioni: ira, vergogna, paura”.[16] 

Ad un secondo livello spesso notiamo che il sintomo psicosomatico contiene un’intensa carica simbolica, sia per gli organi o apparati coinvolti che, in determinate condizioni, possono determinare una patologia generale del soggetto che trascende quella specifica dell’organo colpito; sia per la natura stessa delle limitazioni funzionali cui costringono l’individuo. In questo senso il sintomo non è solo segno, ma partecipa degli attributi del simbolo linguistico che, secondo De Saussure, “ha per carattere di non essere mai completamente arbitrario: non è un vuoto, implica un rudimento di legame naturale tra il significante ed il significato”.[17] Nondimeno, pur non essendo del tutto arbitrario ma conservando una certa espressività naturale (simbolica), gli si possono attribuire altre caratteristiche proprie del segno linguistico e cioè: “ogni modo di espressione ereditato in una società poggia in linea di principio su una abitudine collettiva o, ciò che è lo stesso, sulla convenzione. Anche i segni dotati di una certa espressività naturale sono nondimeno fissati da una regola: è questa regola che costringe ad impiegarli, non il loro valore intrinseco”.[18] Infatti, organi ad elevato valore simbolico, come il cuore, rientrano sia in una patologia psicosomatica in senso stretto, sia diventano bersaglio di una vasta costellazione di sintomi generici. E ciò in relazione ai miti ed alle esigenze di cui sono investiti in forza di un atteggiamento culturale collettivo. 

Oltre ai lavori di Cazzullo,[19] rimandiamo agli innumerevoli esempi di Groddeck[20] circa il contenuto simbolico del sintomo. 

Ma fu Jacques Lacan con la sua affermazione che l’inconscio è costituito da elementi significanti elementari, a saldare la realtà simbolica dei processi sintomatici, sottoposta alle regole sintattiche del linguaggio – se pure un linguaggio di tipo speciale come quello che avviene nel corpo – con le scoperte sull’inconscio di Freud. 

Con questa operazione Lacan ha tradotto in termini nuovi, che un’epoca ricca di recenti scoperte gli suggeriva, le stesse concezioni di Freud sui sintomi, sulle malattie mentali, sulla rimozione. Egli ha quindi riproposto il pensiero freudiano in una cornice più vasta, aperta dalla linguistica e dall’antropologia strutturale. 

Di questo processo dice Anika Rifflet-Lemaire nel suo saggio su Lacan: “L’inconscio, dal suo testo originario fino ad arrivare alle sue formazioni (sogni, lapsus, dimenticanze, sintomi) si rivela, inoltre, paragonabile strutturalmente ad un linguaggio; per spostamenti e condensazioni degli investimenti di significanti in significanti, esso si organizza in una rete di relazioni multiple”.[21]

 

Sintomo come espressione dell’inconscio 

Fin dai suoi primi studi Freud si applicò ad interpretare le vie attraverso cui avveniva quel misterioso salto dalla mente al corpo che gioca un ruolo insostituibile nella produzione dell’isteria, da sempre considerata la “grande imitatrice” della malattia organica, campo di applicazione delle ricerche di Freud fin dal 1885, anno in cui ebbe occasione di lavorare con Charcot alla Salpêtrière. Tutta l’opera seguente del Maestro di Vienna mostrò quanto importante fosse la funzione del rimosso e dell’inconscio nella genesi delle alterazioni dell’equilibrio somato-psichico. 

L’eredità di Freud fu raccolta tra gli altri da Groddeck, che volse la sua attenzione particolare alla cura delle malattie organiche tramite la psicoanalisi: egli infatti confessava di non essere giunto alle psicoanalisi curando malattie nervose, ma di esservi stato “costretto” della sua attività terapeutica nei casi di malattie fisiche croniche. Infatti nel suo scritto “Der Symbolisierungszwang” apparso nel 1922 scriveva precisamente: “Il sintomo della nevrosi – personalmente ritengo avvenga la stessa cosa per il sintomo organico – esprime simbolicamente un moto dell’inconscio”.[22] E nel 1926, pur riconoscendo che “ci troviamo di fronte ad un enigma per il momento ancora irrisolto”, sosteneva “che i sintomi organici si sviluppano in modo analogo al lavoro onirico e nevrotico; che non esiste una differenza di principio tra processi psichici ed organici e che, come il sogno è impregnato di materiale organico – fatto mai contestato, almeno per quanto ne so io, – così il sintomo organico è condizionato dal materiale psichico di cui è pregno; in altre parole, che l’unica differenza difficilmente spiegabile, se non del tutto inspiegabile, consiste nel manifestarsi dell’Es, una volta piuttosto nella sfera psichica e un’altra piuttosto in quella organica. La spiegazione più evidente secondo la quale agirebbero nell’un caso piuttosto determinazioni interiori, nell’altro piuttosto determinazioni esteriori, microbi, fattori chimici, termici o dietetici, ecc. è certamente errata. L’ipotesi che, quantitativamente e qualitativamente, vengano elaborati più elementi psichici nei fenomeni psiconevrotici che nei fenomeni organici, regge altrettanto poco ad una critica basata sull’esperienza”.[23] 

In tal modo i processi organici sono nella loro essenza equiparabili a quelli psichici, aprendo la possibilità di interpretare il decorso dei sintomi della malattia organica allo stesso modo di un sogno, applicando a tal fine esattamente, per Groddeck, lo stesso metodo dell’associazione e le stesse concezioni che Freud ha esposto nella sua Interpretazione dei sogni.[24] Infatti, la sua concezione ci mostra che l’elemento onirico è qualche cosa di improprio, il sostituto di qualche cosa di diverso, che al sognatore è sconosciuto. Ed allo stesso modo, applicando queste definizioni al sintomo organico, se ne trae che il sintomo non è il processo vero e proprio, ma ciò che coincide temporalmente col processo. Inoltre, come nel sogno vi sono rapporti tra il contenuto onirico manifesto ed il pensiero onirico latente, tali rapporti sussistono, nella sfera organica, tra i sintomi manifesti ed i processi latenti. 

E così le regole fondamentali dell’Interpretazione dei sogni, soprattutto la condensazione e lo spostamento, sarebbero applicabili al campo somatico. Il sintomo infatti è scarno, misero, laconico in confronto alla mole di eventi fisiopatologici di cui è prodotto, al pari del sogno rispetto ai pensieri contenuti nel sogno stesso. Così un medesimo sintomo può essere segno di un deficit presente in diverse vie patologiche, può essere il risultato di molteplici alterazioni. 

La tesi lacaniana inoltre provoca l’assimilazione dei processi di condensazione e di spostamento, propri delle formazioni dell’inconscio, ai due meccanismi linguistici della metafora e della metonimia. Questi due meccanismi linguistici sono portatori di una caratteristica di fondo del linguaggio: quella di dire tutt’altra cosa da quello che dice se preso alla lettera. Già possiamo intuire un contenuto della tesi lacaniana: le formazioni dell’inconscio (di cui fanno parte i sintomi di malattia), alla pari del discorso conscio, dicono di fatto un’altra cosa dalla loro apparenza. 

In questa luce i sintomi sono metafore. Essi simbolizzano, a livello di un organo o di una funzione, un significante inconscio. “Il sintomo è il significante di un significato rimosso, simbolo scritto sulla sabbia della carne, esso partecipa del linguaggio”.[25]

L’insegnamento che Lacan ci offre è nello stesso tempo teorico e pratico. Nei sintomi di tutte le malattie in cui è possibile riconoscere un influsso psichico (ma quale malattia potremmo dunque escludere?) conviene individuare un gioco classico del linguaggio e sciogliere le relazioni puramente di linguaggio tra significanti inconsci e significanti consci. Prendiamo come esempio di formazione dell’inconscio, il sintomo-metafora. “Il sintomo si risolve per intero in un’analisi di linguaggio perché è esso stesso strutturato come un linguaggio. È un linguaggio la cui parola deve essere liberata”.[26]

“Il meccanismo a doppia molla della metafora è quello in cui si determina il sintomo in senso analitico. Fra il significante enigmatico del traumatismo sessuale e il termine a cui subentra per sostituirlo, in una catena significante attuale, passa la scintilla che fissa, in un sintomo-metafora dove la carne o la funzione vengono considerate come elemento significante – la significazione inaccessibile al soggetto conscio”.[27] 

Queste due citazioni di Lacan ci insegnano che il sintomo è una formazione dell’inconscio nel senso in cui la parola vera dell’inconscio vi si traduce in un significante enigmatico. Ma esse ci insegnano anche che il processo per cui il sintomo si fissa è quello della metafora: sostituzione in un rapporto da significante a significato, di un significante S’ a un altro significante S. 

Ad esempio, il vomito isterico di Dora, come fa notare Vergote,[28] è un sintomo simbolo, dell’ordine della simbolizzazione universale. Esso esprime la ripugnanza morale della malata per qualsiasi rapporto sessuale, orale (baciare) o altro col signor K. Questo tipo di simbolizzazione è inscritto nella tradizione: l’intolleranza per qualcosa viene spesso descritta come il non poterla inghiottire, digerire. La metafora unisce i registri somatici con i registri psichici. 

La funzione del contesto culturale di appartenenza nella genesi dei sintomi di malattia. L’approccio transculturale 

Ricerche transculturali hanno mostrato che nelle diverse culture assume particolare frequenza l’insorgenza di alcuni sintomi di malattia rispetto ad altri. Questa osservazione ci spinge a completare l’esposizione di alcune caratteristiche legate al processo di formazione dei sintomi psicosomatici. 

Sembra infatti che la prevalenza di alcune patologie non sia giustificata soltanto dalle diverse condizioni materiali di vita: la “scelta” di una patologia piuttosto che di un’altra – da parte del paziente – sarebbe collegata strettamente con una certa propensione determinata dall’orizzonte culturale cui fa riferimento l’individuo. 

Numerosi Autori hanno dimostrato a questo proposito che nel pensiero primitivo i segni ed i sintomi di malattia sono interpretati come significanti di una realtà che comunica sempre e comunque attraverso di essi. In una tale situazione ci pare importante osservare che tutta l’attenzione sarà posta nell’ascolto del sintomo in causa, senza escluderne parte perché considerata “non ragionevole”; l’intellegibilità del sintomo è data dal suo esistere come disagio percepito e non dalla sua coincidenza dentro un quadro riconosciuto di malattia. 

Questa lettura del sintomo fatta dalla medicina in voga nell’ambiente culturale cui si appartiene, agisce all’interno dell’individuo incanalando l’espressione del suo disagio verso forme morbose accettabili, perlomeno a prima vista, da parte della medicina cui si appella. 

Così ad esempio nei Bantu, come risulta da un lavoro di Bartocci, Pinto e Focaia,[29] per le caratteristiche offerte dal significato culturale del sintomo (interpretato come prodotto di una frattura con gli antenati protettori e prodromico di disturbi inevitabilmente più gravi) sembra più facile che il disturbo somatico si porti in seconda linea di fronte ad una terrificante realtà: gli spiriti sono contro di me. Ne esita una sintomatologia tipicamente confusionale a carattere oniroide, mentre sarebbe diminuita l’incidenza di malattie psicosomatiche ad impronta organica. Per opposto la cultura occidentale, attraverso la tecnicizzazione e la razionalizzazione dei sintomi, facilita un meccanismo limitante la proliferazione di fantasia connesse al sintomo, e induce piuttosto una cristallizzazione del disturbo con possibilità di cronicizzarlo verso le linee psicosomatiche. Il sintomo diventa “un accaduto” la cui portata viene ristretta a fenomeno riscontrabile in qualcuna delle tante malattie descritte dalla nosografia. Con il riconoscimento della diagnosi si attua il distacco del sintomo da qualunque componente affettiva. 

Il sintomo si arrocca nell’ambito concessogli dalla diagnosi, perde i connotati emotivi e si cristallizza a livelli più profondi da dove potrà riemergere sotto altre forme, inclusa quella somatica. La cultura dei paesi ad alto livello tecnologico “tendendo a reificare, solidifica il sintomo”.[30]

La domanda di guarigione rivolta al medico: la domanda espressa e la domanda inespressa 

Ci sembra importante introdurre a questo punto una distinzione tra due parole: bisogno e desiderio. 

Esiste infatti una qualità tra ciò che ci si rappresenta come oggetto conscio del proprio bisogno e quanto sta più a monte di questo, cioè il personale e profondo interesse ad esistere e svilupparsi come soggetto, che chiamiamo desiderio. 

Il piano della richiesta, così come formulata dall’uomo malato, è spesso quella del bisogno, ma la risposta a questa richiesta non esaurisce la domanda che dietro ad essa si cela: il desiderio. La risposta data può non essere adeguata spesso; infatti può non essere sufficiente un semplice fornire all’altro ciò che chiede (guarigione, scomparsa del sintomo). Ad un livello più profondo l’interesse del richiedente consiste nella necessità di dire ciò che nemmeno lui ha presente alla propria coscienza. 

Lacan spiega questo punto dicendo: “Quando qualcuno ci domanda qualcosa, questo qualcosa può non essere del tutto identico e talora è anche diametralmente opposto a ciò che desidera”. E precisa ancora: “Quando il malato è inviato al medico o comunque l’accosta, non dite che egli attenda puramente e semplicemente la guarigione. Mette il medico alla prova (sul potere che esso ha, n.d.r.) di farlo uscire dalla sua condizione di malato; la qual cosa è completamente differente (dalla richiesta di guarigione, n.d.r.), perché può implicare che esso sia attaccato all’idea di conservarla (la malattia, n.d.r.)”.[31]

A questo proposito Fedida si chiede, citando Baudrillard, se “il corpo di cui si parla”, di cui il medico nel corso dei suoi studi ha imparato a rappresentarsi più o meno precisamente le cause dei sintomi organici, non sia esattamente l’inverso “del corpo che parla”.[32] 

Attraverso l’accusa della propria sofferenza il malato domanda che il medico abbandoni la rappresentazione visibile ordinata dal suo sapere e si faccia corpo per comprendere. 

La risposta a questa domanda inespressa (o espressa nel suo contrario) è quindi una condizione di ascolto che non è solo silenzio, ma è far sì che l’altro possa parlare, nonostante le proprie resistenze. Rispondere al desiderio dell’altro è creare le condizioni perché l’altro parli, far scoprire al soggetto ciò che in realtà desidera. 

Potremmo ripetere con Lacan “ça parle, c’è chi parla, e là dove certamente meno ci si aspettava, là dove ça souffre, dove c’è chi soffre”.[33] 

Se qualcuno parla, dunque bisogna voler ascoltare e saperlo fare. Bisogna per questo che la pratica medica sia aperta anche a quell’atteggiamento che potremmo chiamare la dimensione corporale della relazione medico-paziente. 

Condizione di questa è la capacità del medico di essere “attraverso il suo stesso corpo il luogo di traduzione della metafora”.[34] Ciò si ottiene disponendosi interiormente ad essere spazio di risonanza del sintomo-metafora, di quelle sensazioni che il malato ha descritto convinto spesso di non essere riuscito a farsi comprendere attraverso le parole. 

La relazione medico-paziente deve essere tesa a comprendere ciò che veramente muove le parole ed i gesti.[35] Essa si gioca “tra il corpo visto e quello inteso, tra il corpo sintomo ed il corpo parlante”.[36] 


[1] WEISS J.: The current state of the Concept of a Psychosomatic Disorder, Int. I. J. Psych. in Med., 1974, V: 473-482. 

[2] BALINT M.: The Doctor, his Patient and the Illness, London, Pitman Medical Publishing Co., 1957.

[3] DIOGUARDI N., SANNA G. P.: Moderni aspetti di semeiotica medica, Milano, S.E.U., 1975.

[4] HARRISON’S: Principles of Internal Medicine, VIIth ed., New York, McGraw-Hill, 1974; CECIL-LOEB: Textbook of medicine, 13th ed., eds. Beeson P.B. and McDermott W., Philadelphia, Saunders co., 1971; ATKINS E.: Signs and Symptoms, 5th ed., eds. McBryde and Blacklow, Philadelphia, Lippincott, 1972.

[5] FOUCAULT M.: Naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical, Paris, P.U.F., 1963.

[6] Ibidem.

[7] MANNONI M.: Le psychiatre, son fou et la psychoanalise, Paris, Seuil, 1970.

[8] GRODDECK G.: Condizionamento psichico e trattamento psicoanalitico delle affezioni organiche, in Il linguaggio dell’Es, Milano, Adelphi, 1969.

[9] FEDIDA P.: Le corps dans la relation psychothérapique et médicale. Revue de Med. Psychosom, XVIII (3): 237-260.

[10] SOLIGNAC P.: La parole et le corps, Rev. de Med. Psychosom., 1976, XVIII (3).

[11] CHOMSKY N.: Syntactic Structures, The Hague-Paris, Mouton, 1957.

[12] FOUCAULT M., op. cit.

[13] SAUSSURE F. (DE): Cours de linguistique générale, Paris, Payot, 1922.

[14] MANNONI M., op. cit.

[15] CAZZULLO C. L.: La medicina psicosomatica: evoluzione dei concetti, delle metodiche, delle applicazioni, Relaz. introd. VI Congr. Naz. SIMP, Milano, 1977.

[16] CAZZULLO C. L.: Manifestazioni cutanee in psichiatria. Atti Accad. Med. Lomb., 1967, suppl., 23: 2843.

[17] SAUSSURE F. (DE), op. cit.

[18] SAUSSURE F. (DE), op. cit.

[19] CAZZULLO C. L.: Indagine psicosomatica nello studio del glaucoma. Riv. Pat, Nerv. Ment., 1954, 75: 530; CAZZULLO C. L.: Nuove prospettive in medicina psicosomatica. Minerva Med., 1967, suppl., 58: 2351.

[20] GRODDECK G.: Un’analisi sintomatica. Ibidem; GRODDECK G.: La stitichezza come prototipo di resistenza. Ibidem; GRODDECK G.: Lavoro onirico e lavoro del sintomo organico. Ibidem; GRODDECK G: La vista, il mondo dell’occhio ed il vedere senza occhi. Ibidem; GRODDECK G.: Del ventre umano e della sua anima. Ibidem.

[21] RIFFLET-LEMAIRE A.: Jacques Lacan, Bruxelles, Dessart, 1970.

[22] GRODDECK G.: La coazione a simbolizzare. Ibidem.

[23] GRODDECK G.: Lavoro onirico e lavoro del sintomo organico, op. cit.

[24] FREUD S.: Interpretazione dei sogni, in O.S.F. vol. III, Torino, Boringhieri, 1966.

[25] LACAN J.: Fonction et champ de la parole et du language en psychoanalise, in Ecrits, Paris, Seuil, 1956.

[26] LACAN J.: Fonction et champ de la parole et du language en psychoanalise, op. cit.

[27] LACAN J.: Instance de la lettre dans l’inconscient, ou la raison depuis Freud, in Ecrits, Paris, Seuil, 1957.

[28] VERGOTE A., PIRON H., HUBER W.: La psychoanalise, science de l’homme, Paris, Dessart, 1964.

[29] BARTOCCI G., PINTO M., FOCAIA L.: Il pensiero primitivo, la malattia psicosomatica, la paura, Med. Psicosom., 1976, XXI (1): 11-16.

[30] Ibidem.

[31] LACAN J.: Intervention à la table ronde: Psychoanalise et Médecine, Chaiers du Collège de Médecine, 1966.

[32] FEDIDA P., op. cit.

[33] LACAN J.: Intervention à la table ronde: Psychoanalise et Médecine, op. cit.

[34] FEDIDA P., op. cit.

[35] KINSTON M., WOLFF H.: Bodily Communication and Psychotherapy: a Psychosomatic Approach, Int. I. J. Psy. in Med., 1975, VI: 195-202.

[36] SOLIGNAC P., op. cit.

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Contesto

Pubblicato in: "Ricerca Medica, Moderna Medicina", n. 3, Luglio-Agosto-Settembre 1986

Co-autori

Data

Ago 1991

Riassunto

L’A., dopo aver esaminato l'evoluzione storica dei concetti di segno e sintomo, rileva come la lettura che di essi ne fa il procedimento della clinica medica risulti insufficiente per comprendere la patologia psicosomatica. Propone per tanto, alla luce della chiave interpretativa fornita dalla psicoanalisi, la lettura del sintomo psicosomatico come espressione dell'inconscio che parla attraverso il corpo e si organizza attenendosi alle regole generali del linguaggio. SUMMARY. The A., having examined the historical evolution of the notions of sign and symptom, shows that the meaning given in modern medical proceeding leads to a misunderstanding of the psychosomatic pathology. Therefore the A. suggests, in light of the interpretation provided by psychoanalysis, the reading of the psychosomatic symptom as an expression of the unconscious that speaks through the body and organizes itself conforming to the general rules of the language.

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pubblicazione

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